The Sounds of Silence – Simon & Garfunkel
Nel 2019 ebbi la fortuna di vedere dal vivo uno dei quattro Quadrati Neri di Kazimir Severinovič Malevič, al museo dell’Ermitage di San Pietroburgo. L’emozione fu tanta al cospetto di quella tela nera riquadrata di bianco. Ora, perché mai dovrebbe emozionarci un canvas dipinto di nero? Non è forse più suggestiva la visione delle montagne nei dipinti di Nicholas Roerich? O “La danza” di Henri Matisse, piuttosto che la “Signora in giardino a Sainte-Adresse” di Claude Monet, per citare solo alcune delle meravigliose opere d’arte in quel museo?
La domanda, piuttosto banale all’apparenza, nasconde in realtà questioni pregnanti come quella del linguaggio, della comunicazione o dell’arte, cui sono già stati dedicati fiumi di parole e innumerevoli saggi. Sono argomenti che mi interessano moltissimo, sempre alla ricerca di una verità, un codice univoco, una certezza, una direzione chiara, una chiave di lettura.
Non ho trovato nulla di tutto ciò e forse è proprio questo risultato, la certezza che cercavo. Sicuramente mi è chiaro che il contesto, collettivo e storico unitamente a quello individuale, è una variabile imprescindibile, condizionante; di più, è parte del gioco del linguaggio, della comunicazione e quindi anche dell’arte.
Bel ginepraio, dunque.
In presenza dell’opera di Malevic avevo la consapevolezza di trovarmi davanti ad un pezzo importante della storia dell’arte del secolo scorso, conoscevo il momento storico ed il luogo in cui è stato realizzato, il percorso del pittore. Il contesto dell’autore, dunque, ma anche il mio: la conoscenza di quella storia. Tutto ciò ha significato – e parlo proprio in termini semantici – la fruizione di quel nero profondo riquadrato di bianco, impedendomi di considerarlo un “nulla” cui banalmente avrei potuto approdare senza conoscerne i retroscena creativi e storici.
Sulla pregnanza del quadrato di Malevic mi capitò di riflettere anche nel corso della lettura del libro di Clément Chéroux, “L’errore fotografico”, che analizzava criticamente il concetto di foto “errata”, di fallimento fotografico, giungendo alla conclusione che non esiste un concetto univoco di errore, poiché legato alla percezione, ai riferimenti culturali, alle aspettative legate al mezzo, nel suo caso alla fotografia. La mimesis tipicamente attribuita alla fotografia, cioè la sua presunta capacità di rappresentare fedelmente la realtà, incastrava in errata una fotografia tutta nera, cioè derivante da un negativo non esposto alla luce e poi stampato, mentre, il quadrato nero di Malevic assurgeva con gloria alla definizione di opera d’arte.
Insomma, una fotografia nera è quindi errore, un quadrato nero dipinto parrebbe di no. Un bel punto fermo? Forse, e vi racconto il perché.
Una settimana fa mi trovavo ad Arles, al Rencontres de la Photographie, lo storico festival della fotografia, ormai alla sua cinquantaseiesima edizione. Il piccolo paesino francese è un concentrato d’arte, non solo fruibile nelle mostre, ma anche nei negozi, nelle gallerie, nelle librerie, negli atelier e non ultimo sui muri dei vicoli del borgo.
È proprio incollato ai muri di Arles che ho incontrato un progetto che ha rimesso in moto la centrifuga semiotica e semantica, le mie domande, le mie ossessioni cognitive, le mie astrazioni cervellotiche.
Il progetto si chiama NO-PHOTO 2025 (l’anno è inserito perché c’è una versione anche per l’anno scorso). Nasce nel 2024 ad opera di attivisti e fotografi impegnati nel conflitto israelo-palestinese ancora in corso e che sono stati esclusi dal festival PHOTO 2024 di Melbourne, pare, a detta della gestione del festival, per l’unico motivo che le call per l’edizione 2024 fossero già state chiuse nel febbraio 2023. Gli aderenti al progetto hanno così deciso di tappezzare i muri di Melbourne, nei pressi delle sedi espositive, con una serie di due poster abbinati: uno è un quadrato (!) o un rettangolo nero che simboleggia una fotografia di un autore palestinese (riportato alla base del poster) e scattata durante il conflitto, l’altro è un testo descrittivo che rivela il contenuto della foto celata.


Ero lì per la fotografia, ero ad Arles per leggere messaggi attraverso le immagini fotografiche, per l’ennesima volta mi confrontavo con lavori articolati, spesso multimediali, testavo l’affermazione, discutibilissima, che “un’immagine vale più di mille parole”, ma mi ha spiazzato un lavoro fuori dalle mostre. Un’immagine fotografica nera, abbinata ad un testo. Non si trattava di una didascalia, ma della precisa traduzione verbale del contenuto di un’immagine che certamente esiste, ma di cui ci viene negata la visione.
Che ne era dell’errore fotografico, che ne era dell’”immagine dal valore di più di mille parole” che certamente l’autore aveva scattato, che relazione c’era con l’esperienza del quadrato nero di Malevic?
La descrizione della fotografia negata mi obbligava a guardare una foto che non c’era, costringendomi con un’efficacia senza precedenti a fissarla nell’immaginazione dentro di me, dolorosa e più vivida che se l’avessi davanti.
Susan Sontag e la sua teoria sulle fotografie del dolore altrui (“Regarding the pain of the others”, la sua celeberrima opera) parlava di anestetizzazione dello sguardo di fronte alle tante immagini drammatiche che ci arrivano dai luoghi più difficili del mondo, colpiti da guerre, carestie, povertà, calamità naturali; una teoria che poi ha ritrattato, ma che io considero ancora valida – perlomeno per quanto mi riguarda e con il beneficio del dubbio -, lo ammetto, con un po’ di vergogna.
Quel testo a latere di un’immagine nera mi ha costretta a interagire, mi ha obbligata a costruire visualmente quello che leggevo, mi ci ha portato dentro quella realtà, mi ha chiesto di agire e mi ha portato nel dolore, senza scappatoie. Mi ha ingannata? Forse.
Leggo: «A newborn child on a white cloth, her tiny chest opened, her little heart exposed. Her hand is detached from her body, lying there next to her, palm facing up like she’s waving goodbye», di Motaz Azaiza («Una neonata su un panno bianco, il suo piccolo petto aperto, il cuoricino esposto. La manina staccata dal corpo, lì accanto a lei, con il palmo rivolto verso l’alto, come se stesse salutando»): costruiscitela tu, Luisa, quella bambina fatto a pezzi e guarda che hai fatto.


Il progetto ha sbaragliato quella barriera che è fatta di un vetro retroilluminato, dove, annoiati, “scrolliamo” (dal termine inglese “scroll”) su uno schermo, passando dalla foto di un bambino palestinese massacrato alla crema per il viso al collagene sponsorizzata dalla attempata star di turno.
Chi ha vinto, chi ha perso? La fotografia? La pittura? Il linguaggio verbale? Forse in un mondo subissato da immagini che non siamo educati a leggere, unitamente ad un diffuso analfabetismo funzionale, là fuori c’è ancora qualcuno che se ne sbatte di quelle certezze, quei codici, quelle ricerche di direzioni che mi portano a cercare risposte su cosa sia l’arte, e invece ti inchioda ad un muro di una cittadina pervasa dalla fotografia in un metalinguaggio fatto di assenza, con il pregio di un risultato: la tua presenza, finalmente.
Spiazzante, ma geniale: NO-PHOTO ci dichiara che l’intelligenza reale, versus quella artificiale, sarà sempre più avanti e insostituibile, quanto un cuore che batte.
Luisa Raimondi