Indocili

Eurythmics – Sisters Are Doin’ It For Themselves [Ft. Aretha Franklin]

di Matteo Rinaldi

Da più di cinquant’anni uno dei modi con cui Arles si apre al mondo è tramite l’appuntamento annuale: “Rencontres de la photographie d’Arles”, il linguaggio principale del festival è appunto, la fotografia.

Rencontres, incontri.

Tanto basta per definire un ampio e metaforico spazio in cui aprirsi.

Qualunque incontro, infatti, presuppone un contatto, non importa che sia fisico o meno, un incontro parla di spazi che si avvicinano, che si toccano o che, nei casi più fortunati, sconfinano, permeano o perfino si sovrappongono al nostro.

Questa è Arles. Una rete di stradine, strette a sufficienza per guardarsi mentre si cammina eppure abbastanza larghe da permettere di mantenere il proprio ritmo, di fermarsi perfino, perché no. Nessuna auto, nessun cellulare, nessuna invadenza. Un vociare che tiene compagnia, ma non infastidisce. Luce gialla che accoglie, cielo quasi sempre blu e il vento, il cui compito principale è ricordare che il mare è lì. Ecco, un’ulteriore apertura. Una geografia fatta per includere, per incontrarsi, per sfiorarsi, per toccarsi. Una geografia che tiene insieme. Paesi, campagne, mare, laguna, vento, cavalli, fenicotteri, fotografie, parole, gente, memorie.

Il tema di quest’anno per Recontres è “Images indociles”.

Colpisce il fatto che c’è perfino una intera sezione dell’evento titolata: “Contre-Voix”, i controcanti! Pare un invito irrinunciabile per Spiazzati.

Siamo nel nostro.

La sensazione immediata che ci siano moltissime fotografe fra le esposizioni di Arles trova conferma nel programma. Sono tante, per fortuna.

Indocili, dicevamo. Le cerco, e ne trovo alcune.

Le prime due, fotografe entrambe, sono Carol Newhouse e Carmen Winant, il progetto si chiama “Double”.

Carmen si chiede se è possibile lasciarsi tutto alle spalle, se si può ricominciare, se si può reinventarsi in un contesto nuovo, in uno spazio dove il corpo e anche l’anima possano esistere in una forma diversa.

© Carol Newhouse and Carmen Winant

Carmen incontra Carol (un incontro!), co-fondatrice di WomanShare, un collettivo femminista-lesbico fondato agli inizi degli anni Settanta per sfuggire al patriarcato: un gruppo di donne si ritira in campagna con l’obbiettivo di far parte di una comunità completamente autosufficiente. Costruiscono case, spazi comuni, acquisiscono, di conseguenza anche competenze definite tradizionalmente maschili. Dissolvono la gerarchia di genere. Mettono in comune la terra, le risorse, i figli, la vita, Annullano le differenze di classe. I rapporti politici e sociali sono regolati dal consenso. Praticano un’agricoltura che è esclusivamente di sostentamento e che, di fatto, esclude qualunque forma di capitalismo. Vivendo in stretto contatto con i cicli della Natura imparano a conoscere la terra e il proprio corpo.

Double” è il frutto del dialogo, durato più di un anno, fra Carol e Carmen.  Per realizzare le immagini della mostra, una delle due scattava un rullino, lo riavvolgeva e lo inviava all’altra in modo che quest’ultima lo esponesse nuovamente. Ecco Double: doppia esposizione, pratica che Carol già esercitava anni prima con le sue compagne per fare in modo che anche un pezzo d’arte non fosse di esclusiva prerogativa maschile.

Quello che affiora parla di autorappresentazione, sia come singoli che come collettività, di interconnessione, di trasposizione tra presente e passato, di unione tra generazioni, di linguaggio condiviso, di altri doppi e, In qualche maniera, anche di resistenza.

Resistenza. È anche quello che suggeriscono le immagini di Agnès Geoffray, la mostra si intitola “They Stray They Persist They Thunder”.

Dall’incontro (un altro!) con Vanessa Desclaux nasce una imponente operazione di ricerca su “Les écoles de préservation”, le scuole di preservazione di Cadillac, Doullens e Clermont de l’Oise. Si tratta di istituzioni pubbliche che accoglievano, termine davvero improprio, dalla fine dell’Ottocento fino alla prima metà del Novecento, ragazze minorenni etichettate come “devianti” o “ineducabili”. Alcune di loro furono addirittura incarcerate, nelle stesse strutture, per via di alcuni comportamenti definiti socialmente o moralmente inadeguati per il loro genere.

© Agnès Geoffray

Siamo di fronte ad un’idea di società che, solo fino a qualche decennio fa, ha emarginato, queste giovani donne in nome di una indiscutibile morale superiore. Infatti, alle ragazze veniva insegnato quello che ogni donna onesta doveva inevitabilmente saper fare: lavare, cucire, stirare.

Un sistema carcerario che non è stato in grado nemmeno di riconoscersi tale si legge sul sito del festival.

Oltre ad una serie di documenti storici, fotografie dell’epoca e articoli di giornale, frutto della ricerca realizzata con Vanessa, la mostra si dispiega attraverso le fotografie di Agnès, e mediante dei testi che vengono proiettati su alcune immagini,

Tramite queste fotografie vengono rappresentati i tentativi di queste ragazze di autodeterminarsi, di fuggire, di evadere, di ribellarsi, di reagire ad un sistema che non le rappresenta, che non le include. Che non consente loro di emanciparsi.

Due incontri, tre fotografe, quattro donne, indocili.

Quello che rimane fra la luce gialla e il cielo blu, il vento che rinvigorisce i pensieri e la vista dei cavalli liberi è che esiste un modo diverso per disobbedire.

Queste donne hanno espresso sé stesse ricostruendo, riordinando, raccogliendo, esercitando e perpetrando quelle abilità che per secoli le hanno caratterizzate. Queste donne hanno disobbedito, con dolcezza. Hanno disegnato nuovi modi possibili per disobbedire, hanno dipinto un mondo più ampio.

Celebrando appunto, come afferma in una intervista Christoph Wiesner, direttore del festival: << …celebrando la diversità di culture, generi e origini. >>.

Arles è un invito a celebrare e perché no, anche ad abbattere in un incontro le prerogative di genere.

Arles è un invito a disobbedire.

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