Le traiettorie delle mongolfiere – Gian Maria Testa
di Luisa Raimondi
Famiglia.
Casa, rifugio, approdo, calore. La storia della fotografia, la Storia tutta, passa anche attraverso gli album di famiglia: il Festival Les Rencontres de La Photographie vi dedicò un lavoro nell’edizione del 2019 con The Anonymous Project: feste di compleanno, matrimoni, vacanze, momenti felici che celebriamo un po’ tutti con uno scatto e diventano memoria, collettiva e personale.
“Un controcanto essenziale al discorso dominante” è tuttavia l’impegno che attraversa l’intero programma della 56ma edizione (e questo ci piace molto) e in effetti quest’anno il punto di vista sulla famiglia è diverso, si indaga soprattutto sul tema della assenza.
L’assenza del padre, per Camille Lévêque, Diana Markosian, Jean-Michel André, e della madre per Keisha Scarville.
Tutti gli autori sono alla ricerca della figura genitoriale, la propria o il ruolo che collettivamente incarna, tutti creano con essa una sorta di dialogo, tutti sono impegnati a ricostruire una relazione, a ricreare l’incontro per colmare un divario. Questi lavori ci hanno colpiti perché cercano di dare corpo all’assenza, portando alla nostra attenzione un argomento tabù, perché doloroso e quindi rifiutato: la perdita e, soprattutto, l’oblio. A noi, come a loro, piace invece parlarne.
Camille Lévêque è stata separata dal padre poco dopo la nascita e anche l’uomo che l’ha cresciuta per qualche anno se n’è andato presto; le è dunque mancata la figura paterna e maschile, i riferimenti. Per questa ragione ha iniziato un percorso, dieci anni fa ed ancora in divenire, di raccolta di immagini attraverso archivi personali, pubblicità, oggetti, album di famiglia scovati nei mercatini, video, interviste (come quella ad un prete, cui chiede quale sia la definizione di padre, nella cultura cattolica). Camille si chiede: chi sono i padri? Nel suo lavoro “À la recherche du pére”, l’autrice, dall’animo femminista, non teme di indagare anche il tema del patriarcato, o quello dell’incesto, mettendoci anche una punta di ironia.





Diana Markosian, nata a Mosca nel 1989, aveva sette anni, quando insieme al fratello, la madre li ha svegliati nel mezzo della notte per partire alla volta dell’America, lasciando un biglietto al marito. I bimbi non hanno neppure potuto salutarlo. Vent’anni dopo Diana trova la forza di bussare alla porta del padre e con lui ricostruirà un rapporto, si creerà un nuovo legame tra due persone che il corso degli eventi ha costretto nella reciproca estraneità. La fotografia sarà il loro linguaggio ed è il medium con cui ci restituisce questa ricostruzione. Quelle che sembrano fotografie staged, fiction, in realtà sono il loro rituale: a colazione, davanti alla finestra, nella casa ritrovata del padre, lei gli portava tutte le foto che la ritraevano, scattate nei suoi vent’anni passati, quelli del gap relazionale; gli chiedeva altresì di scattarle delle fotografie, di lei oggi, per ricostruire un nuovo archivio iconico di entrambi, insieme. Non solo, Diana, utilizza anche il mezzo del video: del padre vuole registrare anche la voce. Ne esce un lavoro, “Father”, intimo, poetico, estremamente delicato, cui si può partecipare lasciando un proprio pensiero su un quaderno al termine del tour espositivo.
Il lavoro ha vinto il Prix pour la photo Madame Figaro 2025.




Il padre di Jean-Michel Andrè fu assassinato in un hotel di Avignone, quando Jean-Michel aveva solo sette anni ed era in viaggio con l’intera famiglia, diretto in vacanza. Dormiva per fortuna in un’altra stanza, ma sconvolto, perse la memoria. Il caso non fu mai del tutto risolto e l’autore del lavoro “Room 207” decide di spostare l’attenzione dalla ricerca della verità, per superare, piuttosto, il suo trauma: torna sul luogo del crimine, ripercorre i paesaggi che avrebbero dovuto visitare nel corso di quella vacanza così brutalmente interrotta, torna alle località che il padre frequentava per il suo lavoro per il Ministero degli Esteri, Germania e Senegal. Fotografa così paesaggi, ma anche oggetti personali e propone archivi di famiglia, in un mix di genere fotografico e di spazio temporale che ricolma un divario, ricostruisce e, soprattutto, guarisce.



Infine, Keisha Scarville, che affronta l’assenza della madre morta di cancro. Soprattutto si interroga su come possa la fotografia restituire un corpo assente, nell’oggi, senza attingere all’archivio fotografico. Affronta l’assenza, facendo i conti con gli oggetti rimasti e sceglie di fotografarsi indossando gli abiti e le stoffe colorate che appartenevano a sua mamma; sceglie il mezzo dell’oggetto sopravvissuto – perché si, gli oggetti ci sopravvivono – e li porta in mostra insieme alle fotografie: Il suo “Alma” ha un sapore divinatorio, spirituale ed evocativo. I tessuti trasparenti che pendono nella stanza adibita alla sua mostra, buia, o le ossa che sua madre decorava, quelle che restavano nei piatti di lei e suo fratello, bambini, che raccoglieva, puliva, lucidava e poi dipingeva; dopo la sua morte ha trovato una borsa piena di queste ossa ancora da decorare.




La famiglia, il nucleo famigliare: l’immagine ci suggerisce un cerchio, stretto, come un legame indissolubile, ma la vita è fatta anche, o forse perlopiù, di tangenti, di derive, di percorsi paralleli.
Al Rencontres de la Photographie di Arles capita di coglierne gli incroci.
Luisa Raimondi